A pane e reaganomics. La recensione di Stranger Things 3

Prodotto da: Netflix, 2016 – in corso

Scritto e diretto da: Duffer Brothers

Ho impiegato più di un anno ad accettare l’idea che la terza stagione di Stranger Things sarebbe stata diffusa in estate, il periodo dove i palinsesti tradizionali televisivi – e le uscite cinematografiche – ricorrono solitamente a contenitori di medio interesse volgarmente paragonati a tappabuchi tra la fine della stagione di una serie e l’inizio di quella successiva.

Quando uscirono i primi rumors e le immagini del nuovo setting (il centro commerciale attorno a cui girano tutte le vicende della stagione) innamorarmi dell’estate di Hawkins è stato, tuttavia, inaspettatamente semplice.

La mia idea era dunque quella di combattere le malinconiche serate estive a colpi di cinema in piazza, giochi di ruolo e Stranger Things. Dovevo immaginare che il binge watching era dietro l’angolo e che la malinconia dell’estate avrebbe lasciato troppo poco tempo e spazio a una sparaflashosa nostalgia al neon.

Il sentimento nostalgico è in questo caso rivolto agli eighties, un decennio che gran parte del pubblico di Stranger Things (compreso chi scrive) vive solo di riflesso ma che oggi sente più che mai. L’invenzione della nostalgia, come la chiamerebbe Emiliano Morreale, è un meccanismo compensativo manifestatosi soprattuto nei momenti di crisi e di passaggio. La stessa reaganomics dell’America anni Ottanta reggeva su un neo-conservatorismo che rievocava ad ogni cantone e in maniera spettacolare gli ideali di famiglia tradizionale, di patriottismo e paura dell’esterno. Un paese pulito in cui l’autorità non era sfidata da opposizioni razziali, sessuali o politiche.

Una sicurezza su schermo che in Italia arrivava con la prima televisione privata.

È l’America sognata dal nuovo Bob Newby, il russo Alexei (Alec Utgoff), un gioco truccato sulla cui rappresentazione questa terza stagione punta in maniera più marcata rispetto alle precedenti.

Laddove Stranger Things è sempre stato una strizzata d’occhio alla cultura di riferimento, con particolare attenzione al cinema di quegli anni, la terza stagione sembra invece focalizzarsi proprio sulla retorica bellicosa e il patriottismo fai-da-te tipico del contesto politico in questione.

Decenni di tensioni tra USA e Urss vennero suggellati sul finire del sup secondo mandato, ma fino a poco prima Reagan stesso parlava dei sovietici in termini di Impero del male e invitava alla Casa Bianca Sylvester Stallone, eroe cinematografico antisovietico per eccellenza (Pensiamo a Rambo 2 o Rocky IV). Nei suoi discorsi ufficiali il presidente rievocava l’immaginario del grande schermo, citando Star Wars o John Rambo stesso, faceva quello che Stranger Things fa oggi a livello di entertainment e lettura del passato riproponendo un’idea di America patinata dove, che sia il sottosopra o i russi malvagi nel sottosuolo, il male viene sempre da fuori.

La differenza sta nella critica consapevole della serie che non tradisce tuttavia la verosomiglianza dei costumi e delle convinzioni dei protagonisti, e passa quindo l’idea del centro commerciale come vero nuovo mostro della serie, dell’America di Reagan come un film spettacolare ma pur sempre finzionale, programmato, programmabile e, lo abbiamo detto all’inizio, sparaflashoso.

Tra nuovi personaggi, approfondimenti di quelli vecchi e dolorosi addii Stranger Things 3 sorprendentemente funziona e quella che su carta non può essere evidentemente una never ending story riesce a tirare fuori un altro ragno gigante di carne dal cilindro.

Una replica a “A pane e reaganomics. La recensione di Stranger Things 3”

  1. […] anni Ottanta e in particolare alla cultura Geek, Horror e fantascientifica. Nella mia ultima recensione su Stranger Things mi sono soffermato su un leggero cambiamento di rotta rilevato nell’ultimo capitolo della […]

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