The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun è un risotto.
Un risotto dal nome complicato, ma pur sempre un risotto. D’altronde a chi è che non piace?
Allo zafferanno, ai funghi, al salmarino, persino con mele, fragole o melograno. Comunque me lo si presenti, personalmente tendo ad adorarlo.
Non ho tuttavia mai pensato di dover trovare un nome per la distanza che c’è tra il saper mangiare un risotto e saperlo cucinare. Ad oggi, credo che tale distanza risponda al nome di Wes Anderson.
Proseguirò come solo le peggiori recensioni sanno fare, ovvero mettendo le mani avanti: le condizioni nelle quali mi sono recato al cinema quel venerdì sera non hanno sicuramente aiutato ad apprezzare la visione di The French Dispatch. Drittone dopolavoro, stanchezza della settimana sulle spalle, vicini di posto inconsueti e soprattuto lui, il buon Wes con la sua perfezione visiva che o la ami o la odi e in questo caso, temo, l’ho odiata oppure me l’hanno fatta odiare.

Sono andato a gustarmi l’atteso film convinto di poter sprofondare nel buio familiare di quella comfort zone alla Woody Allen-degli-ultimi-dieci-anni che anche Anderson ha saputo metter su, quel magico effetto cioè per il quale vai al cinema a vedere certi autori sapendo benissimo cosa ti aspetta, un’ora e mezza o due di totale e accogliente prevedibilità che ti garantisca di tornare a casa sulle tue gambe e con le medesime certezze di prima. A mio parere, essendo io convinto che il cinema debba in realtà smuoverti sempre qualcosa dentro, il problema risiede già alla base di questo tipo di esperienza.
Il fatto che stiamo parlando di un film episodico complica certo le cose e ha reso la comprensione della visione, se possibile, ancor più dispersiva. A voler continuare l’analogia culinaria, è come se qualcuno si fosse dimenticato di mantecare questo risotto servendo un film slegato, insipido, indefinito e che (non me ne vogliano gli estremamente allegri vicini di posto) non-fa-per-niente-ridere. Non mi impunterei su quest’ultimo ingrediente del piatto se non fosse che tutta la sala, tranne me, rideva fragorosamente ad ogni singola scena e io, sempre più piccolo nella mia poltrona, non capivo perché.
Giuro che mi sono interrogato. Sono io a non cogliere alcune sottigliezze? Ho infine ceduto alle sopra descritte condizioni psicofisiche e non mi sto godendo il film? oppure, più semplicemente, The French Dispatch non è poi quel gran magnum opus che poteva essere, per essere un film di Wes Anderson?

Quel che so per certo è che ho capito di dover empatizzare con il personaggio di Bill Murray quando ormai eravamo ai titoli di coda; che tutto l’apparato visivo con cui l’autore ci delizia non serve a compensare un mancato equilibrio narrativo e a non sembrare, alla fine dei conti, un raffinato esercizio di stile per suggellare una poetica dell’immagine che non necessitava di conferme; che riempire un film di muse della propria filmografia non significa che puoi lasciarle lì, in un angolo, a fiamma bassa e senza mescolare, perché arrivino allo spettatore come li si è pensati – sempre che, a questo punto, si sia effettivamente pensato di fargli far qualcosa; Ho capito tardi che forse ero convinto di andare a vedere un altro film, qualcosa che mi smuovesse e che non si limitasse ad essere bello da vedere.
Sono uscito di sala come si esce da quei ristoranti stellati dove hai pagato duecento euro per un risotto impiattato con un coppapasta lillipuziano. Un risotto bello a vedersi, ma che quando rientri in casa e il gatto ti chiede com’è andata non ricordi che sapore avesse.
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