NOPE. La recensione del terzo lungometraggio di JORDAN PEELE

Ci sono pochi autori cinematografici ad oggi che sembrano mancare ben pochi colpi come Jordan Peele.

Nato come attore comedian e approdato all’horror come regista e sceneggiatore nel 2017 con Get Out, seguito nel 2019 da Us, Peele si aggiudica ad oggi un importante ruolo nel panorama di genere.

Con Nope l’autore conferma l’interesse a espandere il canovaccio di temi e tecniche esplorato e sperimentate con i suoi film precedenti, raggiungendo però qui un livello superiore per commistione di generi, potenza visiva (grazie anche al contributo di Hoyte van Hoytema, direttore della fotografia noto collaboratore di Nolan) e accessibilità narrativa, contrariamente a quanto potesse sembrare date le scelte di marketing e l’alone di mistero creato attorno alla trama.

Nope è da considerarsi un blockbuster a tutti gli effetti, o quasi. L’autorialità di Peele consente ancora una volta di intrattenere, ma anche di invitare ciascuna fascia di pubblico a soffermarsi su determinati spunti di riflessione.

Emerge ancora una volta l’intenzione dell’ex attore comico di parlare di America e black people, quindi di società americana e razzismo nei confronti di una delle sue principali minoranze.

I protagonisti di Nope sono Oj (Daniel Kaluuya, già protagonista di Get Out) ed Em Haywood (Keke Palmer), fratello e sorella eredi dell’azienda di famiglia dopo la scomparsa del padre a causa di un misterioso incidente. La genealogia dei due protagonisti affonda le radici nella nascita del cinema e in particolare nella figura del famoso fantino nero immortalato da Eadweard Muybridge. La sequenza Animal Locomotion del 1887, la nota ai più tra i lavori di Muybridge, è famosa per avere fatto da progenitore tanto della fotografia moderna quanto del cinematografo, che sarebbe nato ufficialmente da lì a un decennio.

Nella finzione di Jordan Peele quell’anonimo fantino nero altri non è che il quadrisavolo dei fratelli Haywood e su cui la famiglia avrebbe basato l’intera impresa di addestramento di equini per l’industria cinematografica.

L’antifona cui l’autore vuole sottoporci non è irraggiungibile: così come in altri settori, anche la storia del cinema ha fin dal principio rimosso e oscurato il contributo dei neri alla sua realizzazione.

[…] We like to say, since the moment pictures can move we had skin in the game.

Emerald “Em” Haywood

A differenza di Get Out e Us, tuttavia, il tema razziale qui è meno insistente e la riflessione sociale sembra investire una più vasta fetta di rappresentanze.

Nope è infatti anzitutto un film sull’ostinazione e la necessità della società americana e quindi degli americani (ma potremmo dire dell’essere umano) indistintamente da ceto, classe o colore della pelle, di dover spettacolarizzare a tutti i costi la realtà e quindi, come passaggio successivo ma preventivato, monetizzarla. Non è la prima volta che Peele contrappone ai vizi dell’essere umano la figura dell’animale, che qui prende la forma di destrieri indomabili, di un primate impazzito e di una misteriosa creatura che divora tutto, tranne oggetti inorganici e quindi artificiali.

Ciascun capitolo in cui è suddiviso il film è nominato esclusivamente con i nomi propri degli animali protagonisti (Ghost, Clover, Gordy, Lucky e Jean Jacket) e non è un caso che il film si apra con minacciose parole attinte dalla Bibbia.

“I will cast abominable filth upon you, make you vile, and make you a spectacle.

Nahum, 3:16

Da notare che già in queste primissime parole vediamo apparire la parola “spectacle”, essendo per l’appunto nello spettacolo e nella spettacolarizzazione della realtà che va cercata la chiave di lettura principale del film.

Un passo della bibbia era presente anche all’inizio di Us, ma qui il verso scelto è forse ancora più didascalico e sancisce fin da subito il destino riservato a quei personaggi che non riusciranno a staccare gli occhi dal cielo/dallo spettacolo e che anzi tenteranno di catturarlo a tutti i costi.

Molti di questi fili vengono sciolti in particolare nel capitolo Gordy, in cui criptici indizi di inizio film vengono svelati in un raccapricciante racconto quasi a sé stante, relativi a un massacro in diretta televisiva per mano di uno scimpanzé, e soprattutto dove i personaggi più ingordi nel raggiungimento dei loro scopi, tra chi si crede un prescelto e chi si crede un dio, trovano la loro fine.

Come abbiamo anticipato si susseguono anche e in larga parte scene di puro intrattenimento che fanno il loro lavoro e lo fanno bene. Se nella prima parte del film riconosciamo l’amore dell’autore per il cinema horror, nella seconda parte capiamo di essere di fronte a un blockbuster di fantascienza o, come detto, a un connubio dei due generi.

Nope è un film che evoca fantasmi cult (il paragone a tratti con Tremors o Maximum Overdrive nella mia mente è stato inevitabile) e non lascia nulla indietro pur non scomodandosi a spiegare ogni cosa.

È anche una dichiarazione di amore e preoccupazione per il mondo del cinema alla pari di un Once Upon a Time… in Hollywood, ma ancora una volta è soprattutto una lettura da parte di Jordan Peele della natura e dei rapporti umani che a tratti prevalgono nel tentativo dei protagonisti di portarsi a casa il loro Oprah Shot.

Questo mese al cinema

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2 risposte a “NOPE. La recensione del terzo lungometraggio di JORDAN PEELE”

  1. Un film meraviglioso che dimostra la maturazione completa di Peele come regista. La critica sociale è dura ma non ingombrante: una vera rarità. Visivamente è uno spettacolo. Ogni frame potrebbe essere incorniciato.

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  2. […] mia sorpresa Nope di Jordan Peele lascia prematuramente la classifica, mentre all’ultimo posto, con 2.32 […]

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