Era otto anni che il regista canadese David Cronenberg non usciva nelle sale con un nuovo film. Maps to the Stars segnava nel 2014 quello che molti ritenevano il punto di arrivo del longevo autore, che dopo avere abbandonato i temi principali della sua filmografia, o dopo averli trasformati, sembrava non avere più molto da aggiungere, quanto meno se paragonato al contributo visivo, concettuale e, in una parola, artistico delle sue passate proposte.
Stiamo parlando di Shivers, The Brood, Videodrome, ma anche dell’hollywoodiano The Fly o eXistenZ. Di tutti quei titoli cioè il cui immaginario e i cui strumenti di veicolo del messaggio ritornano in Crimes of the Future che a sua volta, e per questo stesso motivo, viene osannato come il nuovo ritorno del vecchio Cronenberg.
La questione, se non del tutto diversa, è più complessa. Che in Crimes of the Future tornino i temi, o una determinata rappresentazione degli stessi, propri del Cronenberg che fu, dal rapporto simbiotico e viscerale tra uomo e macchina, alla fisicità come chiave per la lettura di determinati aspetti e momenti della società e delle nostre vite, passando per quello che in tanti chiamano il ritorno del body horror (quando per Crimes of the Future parlerei più di body thriller) e quindi della spettacolarizzazione interiore del corpo come veicolo di riflessione, è un dato certo e appurato dalla visione stessa del film.
Molti parlano in rete di un Cronenberg scatenato, altri di un Cronenberg degli albori. Sono in tanti però, come il sottoscritto, che notano in Crimes of the Future dei limiti che in fin dei conti non compromettono la buona riuscita del film, che non solo si lascia guardare ma non ti fa stare letteralmente fermo sulla poltrona, ti disturba, ti allontana come lontani sono i rapporti sociali tra i suoi personaggi, ma sono pur sempre limiti e come tali vengono portati a galla.

Il linguaggio di Cronenberg non è da ritenersi obsoleto. Il corpo oggi è tornato al centro della nostra quotidianità, ma è tornato per assenza, per distanza, per compensazione e allontanamento. Non siamo più corpi che si avvinghiano, che si oliano e che appaiono in televisione col volto di Jane Fonda. Siamo corpi che si negano, che desiderano esplorarsi internamente, ma lo fanno tramite uno schermo, tramite delle protesi sociali atte vivisezionare disperatamente il prossimo senza toccarlo.
Il linguaggi non è obsoleto, ma è datato invece l’utilizzo che Cronenberg fa e mette a disposizione per leggere in maniera crepuscolare e malinconica la società d’oggi tramite gli occhi dei suoi protagonisti.
Crimes fo the Future è una distopia al tramonto, una distopia fisiologica in cui il nostro mondo ha saputo fare a meno del dolore, ma le persone che lo vivono non sono in grado di lasciarselo alle spalle. Gli abitanti del futuro propostoci da Cronenberg anzi cercano il dolore attraverso quello che è il nuovo sesso, la chirurgia e la spettacolarizzazione del corpo mediante la stessa. Una spettacolarizzazione che raggiunge l’apice nel Brecken show e che invece scema in un messaggio finale di speranza ecosostenibile, di evoluzione e quindi di un futuro possibile che i poteri forti cercano di tenerci nascosto. Finale compreso, quelle che Cronenberg ci propone sono solo domande private del lusso e della responsabilità di una risposta o di un accenno di confutazione delle proprie speculazioni narrative.
Non essendo io un conoscitore enciclopedico della filmografia cronenberghiana ho apprezzato particolarmente il fatto che a mezzo secolo dall’inizio della propria carriera Cronenberg sia tornato a muoversi nei bassifondi del low budget e della clandestinità produttiva (leggi anti-hollywodiana) per girare in una Grecia spogliata di ogni identità culturale (o anche no, visto la Medea dell’inzio) 35 milioni circa di pellicola allo scopo di tirare una summa della propria poetica visuale e concettuale capace di risvegliare in noi la voglia di riflettere su interrogativi sì attuali, ma forse meno lungimiranti di quelli contenuti nei lavori passati.
Che con Crimes of the Future il cerchio si chiuda chirurgicamente attorno alla filmografia di David Cronenberg è palese a partire dal titolo del film, che ne riprende un altro del 1970 dello stesso autore, col quale però non condivide che il nome.

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