AVATAR: THE WAY OF WATER. Recensione e riflessioni attorno al passato e futuro del progetto

Il mio primo film in sala di questo 2023 è stato come per molti Avatar: The Way of Water, il secondo capitolo di una serie inaugurata tredici anni fa da colui che non a caso è ritenuto un maestro nell’arte dei sequel (vedi Aliens e Terminator 2: Judgment Day): James Cameron.

Dal 2009 al 2022 per realizzare un film dalle non poche responsabilità in fatto di aspettative soprattutto tecniche. Se il primo Avatar aveva rappresentato uno spartiacque in termini di effetti visivi grazie alla collaborazione con lo studio Wētā FX, compagnia neo-zelandese che ha lavorato anche con Peter Jackson per la trilogia di The Lord of the Ring, ricordiamo infatti che da allora a oggi in tanti titoli hanno contribuito ad alzare l’asticella, non ultimo l’intero Marvel Cinematic Universe (MCU) che solo un anno prima aveva aperto le danze con il primo Iron Man. Asticella, gira che ti rigira, alzata sempre dalla stessa Wētā FX, cui si deve la spettacolarità visiva senza precedenti di film come Avengers: Endgame dei fratelli Russo o Doctor Strange in The Multiverse of Madness di Raimi.

Ma perché è trascorso così tanto tempo tra il primo e il secondo Avatar? e quanto – e in quanti anni – Cameron ha intenzione di espandere la mitologia di Pandora? Ma soprattutto, quale mole innovativa è prevista a ogni capitolo, contando che non passerà sempre oltre un decennio tra un film e l’altro?

Partendo da un’unione delle tre domande per poi approfondirle successivamente, ad oggi sappiamo che una delle grandi novità interne al franchise è che con The Way of Water Cameron introduce finalmente un modulo strutturale all’interno della narrazione che ci aiuta a prevedere, seppur a grandi linee, una parte di ciò che ci aspetterà.

Ai Na’Vi delle foreste che abbiamo incontrato nel primo film si aggiunge in questo capitolo il popolo marittimo dei Metkayina. Il mare, l’oceano, o sarebbe meglio dire l’acqua, già elemento fondamentale e fondante dei film di Cameron, recordman di esplorazioni sottomarine, ha in Avatar 2 il ruolo di protagonista assoluto. È notizia di questi giorni che nell’ancora anonimo sequel di The Way of Water previsto il 2024 sarà presentato infatti un terzo clan che mostrerà, attraverso l’elemento del fuoco, il lato oscuro dei Na’vi. Da qui l’idea che James Cameron sia pronto a guidarci attraverso una lettura della luna aliena conosciuta come Pandora per mezzo di un linguaggio, quello degli elementi, a noi familiare.

Narrativamente e iconograficamente non c’è d’altronde nulla nella descrizione dell’universo di Avatar che a noi risulti realmente alieno. Ogni riferimento e ispirazione al nostro mondo (vedi la fauna sottomarina) è palesata in maniera didascalicamente metaforica, in The Way of Water forse ancor più che nel primo film. Quasi a tradurre il concetto di blockbuster (inteso originariamente come la capacità detonatrice delle bombe aeree alleate sull’Italia fascista in grado di sfondare interi quartieri) in significato: un messaggio che deve arrivare a tutti nella maniera più semplice possibile. La volontà dell’autore, quella cioè di sensibilizzare lo spettatore a determinate tematiche legate alla salvaguardia e al rispetto dell’ambiente e di chi lo abita da prima e in condivisone con noi, è qui scandita da una narrazione che non sconvolge, al contrario di come invece, è evidente, tende a fare la voracità tecnica e grafica del film.

Con Avatar: The Way of Water, come fu con Avatar, lo spettacolo buca lo schermo (letteralmente, se visto in 3D) senza ricorrere a una complessità narrativa che il tema, al fine di non diventare ridondante, forse richiedeva. Molte situazioni del primo film, seppur con una diversa angolazione, le ritroviamo pressoché identiche. A partire dagli umani che tornano all’attacco su Pandora, questa volta non per usarla come miniera bensì come casa, fino al ritorno del villain, la cui spiegazione inizialmente credibile sfocia nel più grossolano retconning.

Il merito quindi esclusivamente tecnico di Avatar: The Way of Water è quello di avere confermato e rilanciato l’avanguardismo già proprio del primo film. Quando nel 1994 Cameron mise la prima volta mano al trattamento, le tecnologie che avrebbe messo in campo e creato apposta per le riprese quindicianni dopo ancora non esistevano. Con Avatar si è passati dalla motion capture alla performance capture, con una sensibile predilezione quindi verso l’intepretazione espressiva degli attori non diluita dai pur dominanti effetti visivi. Spingendo dunque lo studio di quest’ultimi verso una frontiera cinematografica prima inarrivabile.

Stilate assieme al socio Jon Landau oltre 1500 pagine di appunti su Pandora, nel 2010 Cameron prese coscienza del fatto che avrebbe avuto ben più di un paio di storie da raccontare. Mise su un team di sceneggiatori per elaborare quelli che sarebbero stati i quattro film sulle vicende di Jacke Sully e della sua famiglia-fortezza e, affinché tutto stesse in piedi, i volle un’idea dettagliata sull’intero arco narrativo prima di partire a filmare il primo sequel. A conti fatti la promessa è che una volta collegati tra loro i quattro capitoli (assunti per otto fino a poco tempo fa e ora sospettati per essere cinque) formeranno un’epica saga che a quel punto anche diegeticamente avrà qualche cosa in più da dirci.

L’unica certezza che allo stato dell’arte abbiamo letteralmente davanti resta quella di James Cameron come forse il più grande paladino vivente del cinema in sala e per la sala. L’insistenza nell’utilizzo del 3D denota come per l’autore, su sua stessa dichiarazione, nulla possa essere più immersivo e al tempo stesso volto all’evasione del grande schermo. Non c’è device mobile o home video che possa conferire questo tipo di rito e di esperienza. Il fatto che poi Cameron resti un paladino in armatura da blockbuster e che quindi (per forza di diritti) da qui a pochi mesi ritroveremo Avatar: The Way of Water su Disney+, è tutta un’altra storia.

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